Riflessione sul Vangelo della XV Domenica del T. O. Anno C
La parabola del Buon samaritano ci permette di penetrare nel comandamento dell’amore in modo pieno e profondo. Cosa significa davvero amare il prossimo? Questa apertura all’altro non deve giustamente porsi dei limiti? Queste domande sono le nostre, dettate dal buon senso, ma sono anche le domande del dottore della legge a Gesù: non hanno l’apparenza del trabocchetto, come accade in altre occasioni, ma piuttosto dicono la fatica e la resistenza che tutti noi opponiamo al comandamento dell’amore.
Gesù, nel brano lucano, mostra al suo interlocutore che è inutile fare domande su cose risapute. Gesù, infatti, non risponde alle sue domande, ma pratica una sorta di «maietica», traendo dal «cuore» del Dottore della legge le risposte che desiderava avere dal Signore.
Con buona pace di coloro che negano l’esistenza della legge naturale, si può affermare che la legge dell’amore è la prima legge iscritta nella natura dell’uomo.
Richiesto da Gesù, il Dottore della legge seppe scegliere tra le centinaia di precetti della Torah quello veramente idoneo a far ereditare la vita eterna: l’amore di Dio e del prossimo. E Gesù approvò: «fa questo e vivrai».
L’amore è il DNA dell’anima: chi vive l’amore vive davvero. Chi non ama è morto, e chi odia è omicida.
Luca, medico ma anche psicologo, comprende che il Dottore è in difficoltà perché si avvede di aver fatto una domanda inutile a Gesù, e, solo «volendo giustificarsi», rivolge una seconda domanda, anch’essa scontata: «chi è il mio prossimo?».
Gesù non risponde, ma lascia ancora una volta la risposta a lui, dopo avergli raccontato l’episodio del buon samaritano: «chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?».
Gesù lo invita dunque soltanto a riflettere, poiché la verità era iscritta nel suo cuore, come nel cuore di ogni uomo. Ogni uomo, infatti, avrebbe risposto come lui.
La risposta di Gesù comunque va in una direzione ben precisa e con la stessa parabola del buon samaritano ci istruisce su almeno due cose.
La prima è che “amare” è un verbo dell’azione, non dei ragionamenti, dell’impulso, della compassione, del sentire, prima e meglio del calcolo, della presa di coscienza del valore. L’amore si vive, non si discute, l’amore ci muove se noi lo lasciamo agire, l’amore si può solo raccontare dopo che ha provocato la nostra vita, ha smosso qualcosa dentro di noi e ci ha mosso, ci ha fatto compiere dei passi significativi dentro la nostra vita.
La seconda è che non possiamo più chiederci se l’amore ci viene incontro come dono o come richiesta, se viene prima l’amore di Dio nei nostri confronti o il nostro amore per il prossimo. L’amore è uno ed uno soltanto, e il buon samaritano ci insegna che ciò che conta è saperlo accogliere nella forma in cui si manifesta, sia nella forma del dono sia nella forma del comando. È questa la legge della nostra vita, nel senso che al di fuori dell’amore — accolto e donato — non c’è vita sensata, significativa, bella per l’uomo.
È strano che Gesù e il Dottore non si fermino a parlare dell’amore di Dio, ma dell’amore del prossimo.
Il Dottore poteva chiedere come fare per amare adeguatamente Dio. Ma chiese «chi è il mio prossimo» e Gesù raccontò la parabola.
Forse perché, in fondo, Dio è il prossimo più prossimo!
Gesù è il «Dio fatto carne». A Gesù non interessa che adoriamo un Dio astratto, ma un Dio visibile e toccabile come Lui.
Non è Lui il viandante incappato nei ladroni, e che esige di essere curato dai suoi «nemici samaritani» che siamo noi?
Messo sulla croce, il Dio incarnato vuole essere curato col vino dell’amore e con l’olio del timore, che non fa operare il male.
Inoltre Lui, Gesù, sta dentro ogni uomo bisognoso di aiuto e di soccorso, come ci sarà ricordato nel momento del giudizio.
Come si può parlare di amore di Dio — che non si vede — se non si ama il prossimo che si vede?
Nella parabola del samaritano, Gesù colpisce un sacerdote e un levita, cioè coloro che «per professione» dovevano soccorrere i poveri e i bisognosi, le vedove e gli orfani.
La parabola insegna che non è necessario di iscriversi a congreghe o a ordini religiosi per amare, e che non tutti gli iscritti compiono bene il loro dovere.
Certo, il buon esempio trascina, ed è più facile operare il bene insieme anziché da soli, poiché la solitudine stanca. Ma amare è possibile a tutti ed è un dovere di tutti.