Riflessione al Vangelo della XXII Domenica del T. O.
Nel Vangelo di questa XXII domenica del Tempo Ordinario, ci troviamo di fronte ad un importante insegnamento di Gesù del quale dobbiamo far tesoro.
Gesù invita a vivere la fede e l’obbedienza alla Parola, con semplicità, chiarezza, senza formalismi. Proprio tra i più vicini, tra i più devoti c’è spesso la tentazione di confondere la Rivelazione con le tradizioni religiose popolari che più delle volte non sono espressioni di fede, ma abitudini religiose del passato di questa o quella comunità dove spesso è mancata la trasmissione dei veri contenuti della fede.
Il Signore vuole metterci in guardia dal pericolo in cui facilmente si cade quando la fede non si approfondisce e non si aggiorna rischiando così di cadere nell’ipocrisia, nel fariseismo, nell’esteriorità del culto. Gesù, infatti, entra in polemica con gli scribi e i farisei e li invita a passare dalle «mani» al «cuore». La frontiera tra vita morale e immorale non passa attraverso le «mani lavate», ma attraverso il «cuore», cioè il mondo interiore dell’uomo, la mente, la sua coscienza, il luogo del suo rapporto con Dio e con gli uomini.
Il «cuore» indica tutta la personalità cosciente, intelligente e libera dell’essere umano, indica tutta la persona; è il centro dei progetti e delle scelte decisive, della coscienza morale, della decisione della fede e della non fede. Il cuore, potremmo dire, è la coscienza che uno ha di sé. Ed è qui che dovremmo porci il primo interrogativo: da quale tipo di autocoscienza nascono le nostre scelte? Al centro di tutto c’è il nostro io o c’è Dio?
Gesù, riprendendo le parole di Isaia, denuncia la grettezza di un atteggiamento puramente esteriore: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mc 7,6). E Gesù continua: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7,8). Gesù non vuole condannare le pratiche rituali, né favorire una religione intimistica e individualista. Tanto meno vuole attenuare l’osservanza della legge. Quel che Gesù condanna è la lontananza del cuore degli uomini da Dio.
Occorre un «esame del cuore» per mettere in luce quello che siamo di fronte a Dio e di fronte ai fratelli. È dal cuore che tracimano tutti i vizi umani. Gesù ne elenca dodici, un numero che esprime totalità, quasi per dire che tutto il male viene dal cuore, dal mondo interiore dell’uomo: «è dal cuore degli uomini che nascono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Mc 7,21-22).
Il discepolo di Gesù deve avere il suo cuore pieno di Dio, deve trarre dal suo cuore rinnovato le cose buone da fare e non preoccuparsi di ciò che viene dall’esterno. Egli lega la sua vita al comandamento di Dio, si lascia formare da quell’unico comandamento. Il discepolo di Gesù onora Dio con il «cuore», cioè con tutto sé stesso e non solo con le labbra. È essenziale al credente avere un «cuore docile» che accoglie la Parola del Signore. Ma accogliere non è solo ascoltare: il termine spesso nel Nuovo Testamento indica l’atteggiamento di fronte a tutte quelle realtà che discendono da Dio come un dono, ma un dono che impegna ed esige spazio interiore e disponibilità. La Parola va accolta come la terra accoglie il seme che la feconderà. Bisogna portarla con sé, risentirne l’eco durante le ore del giorno, perché sia lampada per i propri passi, luce per il cammino. Allora sì che si renderà culto a Dio nella vita, allora si vivrà il comandamento del Signore. Aderire a Dio con tutto il cuore, accogliere la sua Parola, fare della Sua volontà la nostra legge e di questa legge la nostra vita: tutto questo non significa solo obbedire a un comando, ma comprendere che in questo comando è racchiuso il senso stesso della vita. Il Signore smascherando le ipocrisie e rendendo manifeste le illusioni anche religiose ci ha messo in guardia dalla falsità di un culto puramente esterno che porta inesorabilmente al fallimento della propria vita se non della propria salvezza.