Riflessione sul Vangelo del Venerdì santo

Il racconto giovanneo della passione è una ricostruzione apologetica più che storica, per questo ha delle angolature, se si vuole dei limiti, che non si dovrebbero ignorare.

Innanzitutto l’accento sulle responsabilità giudaiche. Di fatto Gesù è stato un profeta incompreso; non è stato cioè capito né dagli amici, né dai nemici, ma l’avversione cieca, ostinata, irriducibile delle autorità giudaiche contro il loro «presunto» messia è più ipotetica che reale, più retrospettiva (rispecchia il conflitto tra Sinagoga e chiesa degli anni ’70-’90) che vera.

’ La Giudea era parte di una provincia romana e l’ordine pubblico come l’amministrazione della giustizia ricadevano sulle responsabilità del Procuratore, nel caso Ponzio Pilato. Le autorità giudaiche, come buona parte del popolo può essere ritenuta colpevole per non aver presentato ascolto alla predicazione di Gesù, ma attribuire a loro la condanna capitale e persino la denuncia agli odiati oppressori, di un loro connazionale è sempre fuori posto, gratuito.

La passione rimane un momento tragico nella vita del profeta Gesù. È indice di sofferenza fisica, ma soprattutto morale. È il segno della sconfitta, quindi della suprema umiliazione, che non può non avere avuto sinistre ripercussioni nel suo animo. Sono le angosce di cui parlano i sinottici e l’autore della Lettera agli Ebrei (Il Lettura). Gesù è dalla parte della ragione, della «verità», di Dio, non avrebbe potuto perdere e neanche perdersi, tanto meno soccombere, ma questa certezza interiore, di fede, non gli ha impedito di sentirsi perduto, abbandonato, dimenticato. Il timore di aver sbagliato strada, di non aver compreso bene quello che lo Spirito voleva da lui è la tentazione più grave di ogni profeta. Essa non ha risparmiato neanche il Messia.

L’affermazione che Matteo attribuisce a Gesù: «Imparate da me» (11,29) sta a indicare che l’ideale di vita che Gesù propone ai suoi egli per primo ha provato a realizzare con tutti i rischi e le titubanze («tentazioni») che esso comporta.

La passione è certamente il prezzo più alto che Gesù ha dovuto pagare alla missione affidatagli. Non si parla mai abbastanza della sua atrocità e non si immagina mai a sufficienza le ripercussioni che un tale supplizio provocano nel corpo e nello spirito di chi l’affronta. La crocifissione è la pena più straziante che gli uomini abbiano potuto immaginare e solo chi l’ha subita sa quanto possa essere grave, ma con tutto ciò non è la sofferenza in se che contraddistingue la passione di Gesù, ma il modo con cui egli l’ha accettata e il coraggio e l’amore che l’ha sorretto. Le sue grida sono forti ma non indicano sfiducia, disperazione. Anche se il dolore di Gesù è enorme, non è forse il massimo, molti hanno forse sofferto più a lungo e più atrocemente di lui ma la sua passione segnala a tutti un modo nuovo con cui questa può essere accettata.

Il dolore fa parte dell’esistenza di ogni essere, perché nessuno nasce perfetto e tutti sono tenuti ciò nonostante a camminare verso la perfezione e Gesù aggiunge che c’è un prezzo da pagare per realizzare il bene, la felicità degli altri, anche a discapito della propria. La croce e crocifissione perciò fa parte insostituibilmente dell’esistenza di ogni essere, particolarmente del cristiano.

La tradizione culturale non solo ebraica ha spesso fatto l’elogio, persino l’esaltazione della mortificazione, del sacrificio e ha persino attribuito alle divinità un bisogno di vittime per sentirsi onorate e esaltate, ma forse relativamente. Su questa linea si è profilata anche una certa «mistica del sangue» ma è sempre un’affermazione ardita. Per sancire l’alleanza Mosè «prese il sangue dei vitelli e dei capri» e con esso asperse l’altare, la tenda, gli arredi del culto poiché «secondo la legge tutte le cose vengono purificate con il sangue e senza spargimento di sangue non c’è perdono» (Eb 9,19-27). Il medioevo cristiano conoscerà la teologia dei flagellanti, ma rimane sempre sullo stesso equivoco: che Dio abbia bisogno di tali tributi per conservare la benevolenza verso gli uomini.

La sofferenza di Gesù è quella di qualsiasi essere che accetta di soccombere pur di non recedere di fronte all’ingiustizia e al ricatto, è il tributo pagato alla coerenza con l’ideale di bene a cui si è sentito interiormente ispirato. Il sangue non è un talismano che dove si posa purifica i luoghi o le persone, né un dono che si possa offrire a Qualcuno per-avere un beneficio, per accaparrarsi la sua «grazia».

Gesù morendo in croce non ha cambiato la storia, ma ha indicato a tutti la via peTprQ^arsi-a cambiarla, battendosi fino all’ultimo sangue per distruggere il Male e le sue ramificazioni, per realizzare una convivenza pacifica tra gli uomini a qualsiasi nazione, razza appartengano (Regno di Dio).

Si può sempre commemorare, anche solennemente, la passione di Cristo\ ma se si dimentica di prendere sulle proprie spalle il lotto di sofferenze, richiesto per attendere fino in fondo, oltre che a se stessi, al bene degli altri, ci si trastulla in inutili pie scenografie

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